Dopo l’occupazione della Casa del popolo di Biella e fino alla caduta del fascismo non si può parlare di un movimento sindacale organizzato: singoli militanti e dirigenti mantenevano collegamenti sfilacciati e discontinui con fabbriche e gruppi di lavoratori.
Anche nel periodo più buio, quando il regime mussoliniano imponeva un pensiero unico, nel nostro territorio la classe operaia era per lo più estranea al fascismo, con una parte magari inquadrata nei sindacati corporativi come tentativo estremo di difendere i propri interessi. Restava un retroterra politico ostile, fatto di comuisti, socialisti, della componente cattolica più sociale e di aree di cultura liberale. Negli anni trenta, pur se in modo discontinuo, circolavano manifestini di propaganda antifascista, parole d’ordine sui muri, fugaci esposizioni di bandiere rosse; nei reparti di fabbrica si raccolsero sottoscrizioni per aiutare antifascisti incarcerati.
Spesso il malcontento crescente per i bassi salari, il razionamento alimentare, la disoccupazione prodotta dall’autarchia, infine dall’entrata in guerra dell’Italia trovava espressione in forme di sabotaggio produttivo e, addirittura, in prime manifestazione di ribellione e di sciopero. Gli effetti della grande de pressione del ‘29 resero via via più pesanti le condizioni di vita e più esplosivo il malcontento sociale. Gli stessi sindacati fascisti per mantenere un rapporto con lavoratrici e lavoratori, finirono per diventare una cassa di risonanza di malumori e disagi sociali crescenti. Un dirigente del sindacato fascista tessile, Antonio Giuliani, dichiarava: “Se facessimo il calcolo del contributo dato dai lavoratori per superare le difficoltà dell’industria, constateremmo che l’ammontare di questo sforzo enorme compiuto dai lavoratori tessili, si dovrebbe calcolare a centinaia di milioni...”.
Nel 1933, in pieno regime fascista incontrastato, gli operai delle aziende Bertotto e Botto Albino scioperarono contro il raddoppio del carico di lavoro: un episodio che ci racconta una forte capacità di resilienza operaia e di autonomia sociale non reprimibile, nemmeno attraverso un feroce esercizio autoritario. Nel primo anno di guerra tra il 1940 e il 1941 si organizzava a Miagliano tra le mura della “ghiacciaia” l’attività del Gruppo operaio movimento italiano rivoluzionario comunista (Gomirc), sotto la guida di Francesco Moranino, futuro capo partigiano biellese. La nascita di questo gruppo merita un’attenzione particolare per una sua caratteristica peculiare, data dalla composizione di 15 membri, tutti operai delle fabbriche della Valle Cervo, tutti destinati a svolgere ruoli di primo piano nella futura lotta partigiana. Troppo numeroso per svolgere efficacemente un’azione clandestina, il gruppo venne rapidamente scoperto e i suoi componenti denunciati e poi condannati dal Tribunale speciale fascista.
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